Bob Dylan, in abito scuro con calzoni e maniche profilati d’argento, canta in piedi accompagnandosi con la chitarra elettrica. Pochi gradini più su Karol Wojtyla, seduto, con la guancia appoggiata alla mano sinistra, si gode lo show. Prima di concludere con “Forever young”, Dylan si dirige verso il pontefice settantasettenne, inciampa sul secondo gradino, si toglie il cappello bianco da cow boy e porge la mano a Wojtyla. Questi, ora in piedi, la stringe, i due scambiano alcune frasi, e il papa sfiora la spalla del menestrello con una carezza leggera.
Immagine difficile da dimenticare, per un evento considerato bizzarro da molti, non solo ecclesiastici. Siamo nel Centro agroalimentare di Bologna il 27 settembre del ’97 e il concerto, organizzato dalla diocesi, si tiene durante la settimana del convegno eucaristico nazionale. Per ascoltare dal vivo, e gratis, Bob Dylan si sono mossi in circa trecentocinquantamila, ovviamente non tutti cattolici o credenti. L’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi, l’ha fortemente voluto, pensando che anche il rock possa avvicinare i giovani a un evento ecclesiale. Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinale Joseph Ratzinger l’ha criticato, temendo che il menestrello e gli altri che si esibiscono quella sera – tra gli altri Lucio Dalla, Gianni Morandi, Andrea Bocelli, Adriano Celentano, Michel Petrucciani – possano essere scambiati per profeti dalle nuove generazioni.
Il concerto è stato preceduto da polemiche senza fine. Ma il papa c’è.
Sia Giovanni Paolo II che Bob Dylan sono perfettamente a loro agio. Un pizzico rigido il musicista di cultura ebraica? Forse è solo la sua proverbiale, enigmatica riservatezza. Il papa ha incentrato il proprio discorso sulle domande di “Blowing in the wind”, brano dylaniano divenuto inno pacifista in tutto il mondo e eseguito anche nelle parrocchie, che però quella sera Dylan non ha interpretato. E a concerto concluso, quando molti spettatori cominciano ad andare via e le televisioni fremono per i diritti della mondovisione e della pubblicità da mandare in onda, prende il microfono e improvvisa poche frasi. Parla ai giovani che dormiranno nei sacchi a pelo ai piedi del palco in attesa della conclusione del convegno eucaristico, ancora una volta alla sua presenza. “Devo dirvi – racconta – che stasera ho pensato alle ricchezze del mondo, specialmente all’uomo, ai talenti che ha a disposizione. Ecco, per tutti questi talenti occorre gratitudine a Dio. Eucaristia vuol dire gratitudine”. E’ passata la mezzanotte, sotto il palco è tutto un “Giovanni Paolo olè”, l’Italia non è ancora assuefatta alle “Woodstock cattoliche” e un concerto di Dylan resta un evento: le redazioni sono impazzite, in agenzia si va colpi di flash e i maggiori quotidiani fanno la ribattuta.
A Wojtyla dunque era stato sconsigliato di mischiare in questo modo sacro e profano: un concerto rock per un convegno eucaristico. I tentativi di dissuasione non avevano prodotto risultati e le critiche in ambito cattolico non erano mancate, seppur come sempre velate e indirette, come allora i cattolici criticavano i papi.
Quella sera ero sotto il palco, sulla sinistra, in piedi con altri colleghi italiani, mentre i colleghi americani stavano sulla destra, e ci guardavamo un po’ in cagnesco perché ostacolandoci reciprocamente nel tentativo di avvicinarci al seguito di Dylan prima che arrivasse, alla fine eravamo stati allontanati tutti, non eravamo riusciti ad infiltrare neppure uno di noi perché facesse da “pool”, piazzasse qualche domanda e poi riferisse agli altri. Ma il concerto ce lo siamo goduto, e papa Wojtyla ai miei occhi di cronista ha conquistato molti punti per la sua capacità di infischiarsene delle critiche e andare avanti per la sua strada, una volta convinto di una cosa.
Non volendo colpire il papa, una pioggia di critiche, e di ostacoli alla realizzazione del progetto, si era abbattuta sul sindaco di Roma Walter Veltroni quando all’inizio del 2002 aveva manifestato l’intenzione di conferire la cittadinanza romana a Karol Wojtyla. Veltroni, – che al liceo era stato leader della Federazione dei giovani comunisti italiani (Fgci), poi dirigente del Pci, e che come direttore dell’Unità aveva distribuito i Vangeli in omaggio con il giornale fondato da Antonio Gramsci, – da ambienti politici fu tacciato di opportunismo e da ambienti ecclesiastici di commettere una “gaffe”, visto che il papa, vescovo di Roma, è per definizione “romano”. Alla fine Veltroni la aveva avuta vinta, e ad ottobre nella biblioteca papale c’era stato il conferimento della cittadinanza onoraria, il che vuol dire che al papa faceva piacere diventare ufficialmente “civis romanus”, come si era definito nella sua visita in Campidoglio del 15 gennaio 1998, con le parole dell’apostolo Paolo. Che gli piacesse il titolo, apprezzasse la cerimonia e gradisse ricevere quella bella pergamena bianca lo si capiva dal suo sorriso, seppure già piuttosto irrigidito dal Parkinson, e dalla sua battuta al sindaco: “Si doveva lavorare 24 anni, san Paolo ha fatto prima”.
Quando sono stata accreditata in sala stampa vaticana nell’agosto 1994, Giovanni Paolo II regnava già da circa 16 anni e nei primi tempi del mio nuovo incarico mi ero resa conto che tutti i colleghi, sia italiani che stranieri, erano affascinati dal grande papa, e dal suo portavoce Joaquin Navarro Valls. Senza togliere niente alla professionalità di tanti bravi giornalisti, che ammiravo e che ho sfruttato per imparare moltissimo, a me che ero l’ultima arrivata sembrava ci fosse un cerchio di familiarità, talvolta un po’ acritica, a circondare Wojtyla, che pure nei primi anni di pontificato non aveva goduto di grande amore da parte della stampa italiana e mondiale. Inoltre il portavoce Navarro, spagnolo, medico prestato al giornalismo, dominava incontrastato le dinamiche della comunicazione anche nei momenti più difficili, uno per tutti l’uccisione del comandante della guardia svizzera Alois Estermann e di sua moglie Gladys Meza Romero da parte dell’alabardiere Cedric Tornay, il 4 maggio del ’98. Tra i meriti di Navarro c’è indubbiamente quello di aver diffuso, contro la tendenza curiale ad occultare le notizie sulla salute dei papi, la notizia della “sindrome extrapiramidale” che affliggeva il papa, il che permise di qualificare senza dubbi come morbo di Parkinson la causa dei tremori alla mano che affliggevano Giovanni Paolo II già da alcuni anni. Si era durante il viaggio di Wojtyla in Ungheria, nel settembre del ’96, e fino alla morte, avvenuta il due aprile 2005, la malattia degenerativa del papa non fu più un tabù e la comunicazione vaticana e il suo regista Navarro, per volontà dell’illustre malato, dovettero gestirla con il massimo di trasparenza possibile.
Dritto per la sua strada Giovanni Paolo II è andato non solo con Dylan e Veltroni, ma in tante altre occasioni, più o meno felici. La più infelice, a mio avviso, è stata la decisione di istituire quattro diocesi nella Russia post sovietica a febbraio del 2002, creando una frattura ulteriore con il mondo ortodosso russo, che già non aveva in simpatia un papa polacco. Per Wojtyla trasformare in diocesi le amministrazioni apostoliche era un gesto di ritorno alla normalità dopo la dittatura comunista, ma per il patriarcato di Mosca era un “atto non amico”. La frattura sarà superata solo da Benedetto XVI, teologo stimato e seguito sia a Mosca che a Costantinopoli. Fallimentare – ma quanto profetica – poi, la sua ostinazione nel tentare di scongiurare la guerra contro l’Iraq, con una serie di appelli, attività diplomatiche, tentativi di dissuasione, fino all’inviare dei cardinali Roger Etchegaray e Pio Laghi, nel marzo 2003, a tentare di convincere l’uno Saddam Hussein a e l’altro George Bush jr a percorrere la sempre più stretta via della pace.
Nei confronti di Wojtyla non solo la percezione giornalistica ma anche quella della gente comune e della opinione pubblica è cambiata nel corso del lungo regno, in quei quasi ventisette anni di gesti e avvenimenti spesso inediti e rivoluzionari, che ne hanno fatto il papa che ha contribuito a far crollare il muro di Berlino e smontare la cortina di ferro, il pontefice che ha riannodato in modo irreversibile il dialogo con il mondo ebraico e tracciato la strada per un rapporto nuovo con la religione islamica in tutte le sue declinazioni, il viaggiatore instancabile che con 104 viaggi internazionali ha portato il Vangelo in giro per tutti i continenti, uno dei leader mondiali più considerati durante e dopo la guerra fredda. E tanto altro ancora.
Gli ultimi anni del papa e gli ultimi giorni di agonia sono stati circondati dall’affetto e dalla stima di milioni di persone, e quei giorni tra marzo e il due aprile 2005, per chi c’era, sono davvero difficili da dimenticare. Dopo una serie di ricoveri al Gemelli e una tracheotomia che lo aveva privato della parola, Giovanni Paolo II era tornato a casa, sembrava si stesse riprendendo, ma al presentarsi di una infezione molto seria, consapevole della fine, aveva chiesto ai medici di non riportarlo in ospedale. Dal martedì al giovedì la situazione era precipitata: “Lasciatemi andare alla casa del Padre”, aveva bisbigliato ai suoi collaboratori. Piazza san Pietro e dintorni erano assediati da una folla immensa, dolente e silenziosa, persino disciplinata. Appena si era capito che stava per morire, in migliaia avevano passato due giorni e due notti sotto la sua finestra, e in decine di migliaia si erano messi in fila per salutarlo prima che fosse sepolto. Dormivano a turno per non perdere la fila, bevevano poco per non dover fare pipì troppo spesso. I bagni ecologici non arrivarono subito, e la ditta laziale che alla fine li installò in gran numero attorno alle mura del Passetto di Borgo, dove restarono fino a dopo le esequie, guadagnò una fortuna.
Per un percorso di un centinaio di metri, dal parcheggio dei motorini alla sala stampa vaticana, (dove siamo rimasti anche di notte, e tra l’agonia e la morte 60 ore senza poggiare la testa su un cuscino), ho impiegato in quei giorni anche 28 minuti, facendomi strada a fatica tra persone e transenne, tutti stipati come sardine, prima per arrivare in piazza sotto alla finestra del papa agonizzante, o dopo per le interminabili file per rendere omaggio alla salma, o per i funerali. Difficile pensare che quelle centinaia di migliaia di persone che hanno assediato per giorni piazza san Pietro e dintorni fossero lì soltanto per la fortissima spinta mediatica delle testate di tutto il mondo. Anche perché i primissimi ad arrivare, alla notizia dell’aggravamento del papa e ben prima dei media, sono stati i pullman di polacchi, e moltissimi, polacchi e non, erano giovani. Migliaia di giovani da tutto il mondo per vegliare e piangere il loro papa, quello che ha inventato le giornate mondiali della gioventù e che ha avuto un rapporto speciale con le giovani generazioni, con le quali stava bene perché gli ricordavano “l’energia di Dio quando ha creato il mondo”.
Alla capacità di andare dritto per la sua strada e al rapporto speciale con i giovani dovremmo aggiungere molte altre caratteristiche, per disegnare anche solo uno schizzo del papa polacco – eletto a ottobre 1978, quando il mondo era ancora diviso in blocchi e la chiesa cattolica non era uscita dal postconcilio – che da giovane aveva fatto l’attore e l’operaio, che a scuola aveva come compagno Jerzy Kluger, figlio del capo della comunità ebraica di Wadowize, la città dove il futuro papa è nato e ha vissuto durante l’infanzia. Il primo papa dopo san Pietro ad entrare in una sinagoga, il primo in assoluto ad entrare in una moschea, il grande viaggiatore che ha fatto del papato un servizio anche itinerante, perché aveva una vocazione geografica, e non solo perché il Vaticano e la curia a gli stavano stretti. E ancora, il primo ad essere curato in un ospedale pubblico, il primo ad aver scritto una lettera alle donne, il primo non italiano dopo oltre quattrocento anni, e via dicendo, per quello che abbiamo chiamato “il papa dei record”, “l’atleta di Dio” e alla fine, piegato dalla malattia, ha subito la progressiva inabilità fisica, colpito prima nel vigore e poi nella parola, cioè in ciò che lo aveva più caratterizzato come uomo e come prete. Ho spesso pensato che Wojtyla fosse tanto “normale” e tanto poco clericale grazie anche alla sua formazione sui generis, sviluppatasi nel seminario clandestino organizzato dal cardinale Saphiea nella Cracovia occupata dai nazisti, quando il giovane Karol recitava anche nel Teatro Rapsodico, anche questo clandestino.
Alla fine tra i giornalisti accreditati in Vaticano gli volevamo bene tutti, e quando è morto a molti di noi è sembrato di perdere uno di casa. Non è stato facile e immediato per tutti riuscire a seguire il successore, l’anziano Joseph Ratzinger, teologo tedesco rigoroso e timido, che intelligentemente non voleva essere una copia del gigante che lo aveva preceduto, ma fu sinceramente se stesso. E che ha patito una antipatia acritica e il peso di un cliché negativo, almeno fino a quando, l’11 febbraio 2013, rinunciando al pontificato, ha mostrato tutto il proprio coraggio. Ma questa è un’altra storia.
WOJTYLA SUL PALCO CON BOB DYLAN, RICORDI DI UN CRONISTA. IL 18 MAGGIO DI CENTO ANNI FA NASCEVA IL FUTURO GIOVANNI PAOLO II
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