Giovanna Botteri, corrispondente della Rai da Pechino, con grande signorilità ha sperato che la polemica sulla sua pettinatura nei servizi durante la pandemia sia almeno occasione per riflettere su ciò che si chiede alle giornaliste televisive in Italia, se contenuti e professionalità o “look” e spettacolo. La sua reazione alle critiche ha suscitato grande simpatia in tutta la mia famiglia: come in genere accade, abbiamo apprezzato il lavoro della Botteri, anche in queste settimane difficili, e mai ci siamo preoccupati della sua acconciatura. Ben prima della clausura da coronavirus invece ci eravamo chiesti come potesse passarla liscia un conduttore del servizio pubblico, effettivamente molto ben pettinato e impeccabilmente vestito, che però aveva infilato uno strafalcione da far arrossire fino alla radice dei capelli, e non lo aveva neppure rettificato. Contribuisco quindi alla riflessione auspicata dalla davvero professionale Giovanna Botteri con alcune considerazioni tratte da “I coccodrilli di Ratzinger”, stralciate dal capitolo intitolato:
L’APPARENZA INGANNA O NOI VOGLIAMO ESSERE INGANNATI?
“Io sono brutto, ma faccio il giornalista e non la valletta, mica devo essere bello per fare il giornalista”. Dietro un paio di lenti quadrate e spessissime Mario Pastore rideva di gusto davanti alla platea di aspiranti giornalisti che ascoltavano la sua lezione, convocato da Mario Pirani, per istruirci su trappole e segreti del giornalismo televisivo. Quando ero piccola a casa c’era un solo giornale, lo portava mio padre quando tornava dall’ufficio, e appena babbo entrava in casa, io e mio fratello ci contendevamo il quotidiano. C’era un solo telegiornale, sul primo canale, e lo guardavamo tutti insieme prima di cena. Uno dei volti di quel telegiornale era Mario Pastore, che durante la lezione sfoggiava lo stesso aplomb e tecnica e padronanza di linguaggio delle sue conduzioni o cronache televisive. Quando, alla fine degli anni Ottanta, sono arrivata alla scuola di giornalismo invece c’erano già le prime donne conduttrici televisive, e stavano aumentando. Si passava inoltre dal modello tradizionale a quello “buca lo schermo” e credo che non sia stato indolore: una volta ho raccontato a Marina Ricci, storica vaticanista del Tg5, di quella lezione di Mario Pastore, e lei mi ha accennato delle critiche alla sorella Angela Buttiglione – prima donna a condurre un telegiornale della Rai – per il suo stile difforme da quello aggressivo che andava emergendo. Così mi sono ricordata di una vecchia intervista del ”Venerdì di Repubblica” proprio ad Angela, in cui le si imputava di non avere una pettinatura abbastanza alla moda. Ricordo inoltre una conversazione con mia suocera che ammirava particolarmente una giovane giornalista appena approdata alla conduzione sul primo canale, e mi diceva: “Mi piace tanto, è proprio carina”. Carina per lei voleva dire bella, gradevole, sobria, gentile, come effettivamente era quella giovane collega, che però in quei primi tempi dava la netta impressione di non sapere nulla delle notizie di cui era fatto il tg che conduceva. Niente di grave, visto che poi ha imparato ed è diventata un’ottima giornalista televisiva: segnalo però che né mia suocera in quanto ascoltatrice, né i dirigenti del telegiornale, pretendevano che la conduttrice sapesse di cosa stava parlando, bastava che fosse carina. Non sono ferrata su questo tema e non vorrei parlarne a vanvera, ma sicuramente la televisione ha un impatto molto forte sul pubblico, – come oggi hanno, forse in misura anche maggiore, i “social network” – su cui bisognerebbe riflettere, sia da spettatori che da giornalisti. Una domanda che mi pongo è se il narcisismo dei giornalisti abbia preso tanto piede non solo perché i giornalisti sono diventati molto narcisi, ma anche perché è il lettore e il pubblico a volerli narcisi. Alberto Sensini, sempre durante il corso di giornalismo alla Luiss, ci aveva raccontato di una volta in cui partecipò a una trasmissione televisiva e il portiere del palazzo, dove abitava da decenni, il giorno dopo lo salutò con un calore e una familiarità di cui lui, giunto ai vertici del Corriere della Sera senza essere mai apparso in televisione, non aveva mai goduto in tutti quegli anni. Ci deve essere anche una attrazione perversa e malvagia nel mezzo televisivo, se alcune persone – probabilmente con personalità deboli – passano le proprie giornate appostate dietro ai giornalisti televisivi aspettando di poter essere inquadrati dietro di loro quando ci sarà la “diretta”. Penso al precursore – l’allora giovane e oggi non più, – figlio di un generale romano che ha iniziato con gli appostamenti semplici per poi passare alla interruzione dei servizi giornalistici e al boicottaggio degli “stand-up”, beccandosi anche un certo numero di querele. E che dire dei suoi più recenti emuli, come il giovane con il faccione tondo e i capelli rossi che tenta sempre dei farsi riprendere in piazza Montecitorio o nei punti nevralgici della cronaca, con una espressione semi-ebete? O il decisamente più anziano signore con capelli e occhi scuri anche lui appostato dove ci sono giornalisti in attesa dell’uscita di personaggi della politica o della cronaca, che sfodera uno sguardo che forse vorrebbe essere attento, ma risulta soltanto artefatto e inespressivo? Che fascino può esserci nell’apparire in tv, e perché le persone sono disposte a questo? Godo di una certa popolarità dopo lo scoop sulle “dimissioni” di Ratzinger, e penso che la popolarità entro certi limiti possa essere una buona cosa, ma non capisco come si possa attribuire tanta importanza a un passaggio della propria faccia in tv, fino a considerarlo una cosa che dà senso alla propria vita. Quando ho fatto lo stage a Repubblica, visto che come diceva Riccardo Monni “qui il giornale lo fanno gli stagisti” – era estate e la redazione era svuotata dalle ferie – finii anche alcune volte con la firma in prima pagina, e in una di quelle occasioni mi arrivò il telegramma di congratulazioni dell’ex fidanzato di mia sorella, Mario. Risposi spiegando che si trattava solo di uno stage, e ringraziando di cuore. Qualche anno dopo, avevo già conquistato il contratto all’Ansa, raccolsi l’entusiasmo di una vecchia amica che aveva visto inquadrata in televisione – mentre con il registratore in mano correva dietro a un politico insieme a uno stuolo di cronisti parlamentari, – una nostra conoscente: sapevo che la nostra conoscente faceva uno “stage”, era precaria e chissà quando avrebbe avuto un contratto, ma per la mia amica il fatto solo di averla vista in tv sembrava qualcosa di incommensurabile e le faceva considerare la conoscente in realtà precaria come una giornalista importante, arrivata, e quindi meritevole. E la mia interlocutrice non era una donna incolta ma una professoressa molto preparata e con una grande passione civile. L’estate dello stage in cui firmai su “Repubblica” ovviamente mi diede molte soddisfazioni, anche se in un angolo della testa mi venivano in mente le parole di Tiziano Terzani circa i giornali pieni di firme: “quando vedo i giornali tutti pieni di firme mi sembrano cartoline illustrate” aveva detto il grande giornalista italiano, abituato a giornali con molte meno firme – e meno prime-donne? La firma e la faccia hanno forse un ruolo diverso sul giornale, in tv, alla radio o in agenzia, ma mi sembra di poter dire che il trionfo dell’apparenza sul mestiere, della confusione sul giornalismo, sia ormai un dato acquisito in qualsiasi “medium”.
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La faccia, la sigla o la firma, come la testata, dovrebbe fornire una garanzia: guardo un telegiornale o compro e leggo un giornale perché al di là delle grandi firme mi aspetto che ogni articolo, da chiunque sia firmato e anche se non firmato, sia ben fatto, di buon livello e fornisca una buona informazione. Cioè sotto una stessa testata giornalistica, sia radiotelevisiva che di carta stampata che “on-line”, dovrebbero esserci tutti pezzi la cui affidabilità e competenza sia garantita.
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In tutte le scuole di giornalismo che – ormai decenni fa – ho frequentato, ci insegnavano che più che l’apparire o le apparenze, conta la sostanza e la schiena dritta. Invece sempre più dietro la faccia o la firma non c’è granché, non solo, nessuno chiede più che ci sia qualcosa, basta l’immagine e il “trucco e parrucco”. Parlando con Marina Ricci della scuola di giornalismo che ho frequentato tantissimi anni fa, – nella nostra conversazione ricorrevano molti dei nomi che si trovano in questi racconti – Marina mi dice: “Certo che insegnanti! Hai studiato con Mieli, Pastore, Pirani, Spaventa…, oggi le scuole di giornalismo non sono così”. E devo anche dire che nessuno di questi grandi insegnanti dava alcun segno di narcisismo, o di voler mettere se stesso davanti alla notizia, né che spasimasse per mettere il suo viso davanti a una telecamera o a un microfono. Che fosse questa indifferenza all’apparire che li rendeva efficaci e creativi nell’insegnare?
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Tornando alla firma, bisognerebbe firmare solo cose degne di essere firmate, mentre oggi ancora un po’ si firmano le liste della spesa e i verbali dei vigili urbani. Non serve a nessuno, ma accontenta tutti, compresi, sembrerebbe, persino i lettori, anche se di questo non sono del tutto convinta. Sembra dunque che l’apparenza, l’esteriorità, abbia preso il sopravvento sui contenuti. Ma apparire troppo, essere troppo conosciuti resta uno svantaggio per il giornalista che scarpina in cerca di notizie e si muove in ambienti non facili.
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Fin qui da “L’apparenza inganna o noi vogliamo essere ingannati?”. Chi fosse interessato può consultare anche il capitolo dedicato a “L’informazione spettacolo e lo spettacolo della info
#IOSTOCONGIOVANNA
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